Fragilissimi Martiri – Una lettura di “Melancholia”

Ho visto Melancholia di Trier Von. Proiezione casalinga in lingua originale sottotitolata. Una volta che cominci non puoi più farne a meno. Intendo della visione casalinga e della lingua originale. Del film di Trier Von invece pare che molti possano fare a meno, recensioni alla mano. Su dieci che ne ho lette due erano positive e otto negative. Diciamo subito che Melancholia è un film sulla depressione. Probabilmente i recensori erano stati ingannati dal plot catastrofistico che antepone il gigantesco pianeta Melancholia in rotta di collisione con la terra a una velocità di sessantamila miglia orarie. La premessa scientifica, se uno ci pensa, è già di per sé in secondo piano. Non esistono pianeti che viaggiano come palle da biliardo per l’universo, quelli sono gli asteroidi. Non stiamo assistendo a una pellicola americana che, basandosi sempre su premesse azzardate, alla fine vuole spiegare il perché e il per come della catastrofe, spesso incolpando l’essere umano di incuria verso il pianeta. Qui la catastrofe è annunciata nelle prime sequenze, si vede Melancholia avvicinarsi alla terra come due teste che facessero per incontrarsi amorevolmente, per poi letteralmente assorbire la terra, un po’ come gli aerei che si abbatterono sulle torri gemelle. Quindi svelato il finale, resta da concentrarsi sul film e sulle sue dinamiche.

 

Ho notato che, invece, molte recensioni si sono soffermate sulla pochezza scenografica dello scontro fra i due pianeti sul finale, sulla mancanza di suspance per arrivare al momento fatale, addirittura critiche sulla banalità dei dialoghi o sulla debolezza della sceneggiatura priva di, come dire, colpi di scena: insomma, attese da pellicola americana. Ma qui siamo di fronte a un’altra cosa e questa cosa si chiama Trier Von. Dato che non scrivo mai recensioni, e non intendo scriverne neanche adesso, ma fornire una mia lettura del film, salto di palo in frasca e mi soffermo un attimo sul regista danese. Premetto che Trier Von, all’anagrafe Lars Trier, l’ho sempre detestato. I suoi film non mi piacciono. Come quelli di David Lynch d’altronde. Da Dancer in the dark a Antichrist, dalle Onde del destino a Dogville, passando per The Kingdom. Durante la visione di Dogville, quando ancora mi sforzavo di andare al cinema a guardare film doppiati ad orari prestabiliti e in compagnia di altri sconosciuti seduti di fianco o davanti, ricordo che volevo andare via dalla sala, tanto mi era parso fin dalle prime scene l’intento di Trier Von, chiaro come il supplizio a cui avrei dovuto assistere per tutta la restante durata del film. Nei suoi film ci trovo sempre qualcosa di bellissimo e qualcos’altro di tremendamente irritante. Qualcuno potrebbe dire che questa è una buona definizione di “arte”, e infatti ho sempre riconosciuto a Trier Von il fatto di essere un artista. Come a David Lynch d’altronde. Senza dubbio. Non mi sogno di dire che Hemingway fa schifo o non è capace a scrivere perché mi piace un altro stile di scrittura. Ritengo l’inizio di Antichrist un capolavoro assoluto, pur non apprezzando tutto lo svolgimento del film, alcune scelte psicologiche. Ho notato invece che molto spesso, non solo i critici, questi “alpinisti di pianura” come li ha chiamati Sorrentino parafrasando Carmelo Bene, ma anche altri nuovissimi improvvisati opinionisti della rete danno giudizi molto tranchant, tipo film inguardabile, il solito noiosissimo depresso Trier Von, trama banale, film scontato e così via. D’altronde di cosa stupirsi, se anche su Anobii a proposito di libri si leggono cose tipo che Il ritratto Dorian gray è scritto benino o i fratelli Karamazov ha una trama che fa schifo. Siamo una popolazione molto confusa, lasciatemelo dire. Molto confusa ma con la sindrome prettamente televisiva da opinionisti tuttologhi, che non distingue un tanto al chilo dai milligrammi. Ma tant’è.

Dicevo, Melancholia è un film sulla depressione. Questo fa sì che le persone depresse, o quelle che brancolano oscillando sul confine della depressione, potrebbero apprezzarlo di più, ma non vorrei lasciarmi andare in pregiudizi. Ho sempre ritenuto, non soffrendone del tutto, la depressione come il lusso della noia. Bisogna essere capaci ad essere depressi, non è così semplice. Fatto salvo il fatale destino umano, mostrato nelle prime scene del film, assistiamo ad una classica architettura vontrieriana suddivisa in capitoli, che portano i nomi delle due protagoniste, Justine (un ironico riferimento a De Sade? In fondo anche la Justine di Trier Von è circondata da personaggi spregevoli, e in un ipotetico capovolto negativo della Justine di De Sade viene salvata dalla sorella che gli è diametralmente opposta) e Claire, antitetiche sorelle alle prese con il matrimonio della prima. Il film si apre con una serie di “quadri mobili”, se mi si passa l’espressione, immagini al rallenty di scene iconografiche che rappresentano – questa è una possibile chiave di lettura – tutto ciò che vedremo nel film. Justine, una perfetta Kirsten Dunst, che trascina corde o catene nel fango. Una pioggia di uccelli morti, che apre il film, che cadono dal cielo su un’immagine sgualcita di Kirsten Dunst, accompagnata dalla musica di Tristano e Isotta. Claire, un altrettanto perfetta Charlotte Gainsbourg che porta in braccio il proprio bambino per i campi, lentissimamente e con estrema fatica. L’immagine delle due sorelle contrapposte al primo piano della lussuosa villa dove si svolge tutto il film, con il pianeta Melancholia (la depressione) perpendicolare a Justine, la luna (la normalità) perpendicolare a Claire, e il bambino (l’innocenza) nel mezzo. Ad ogni parentesi che ho inserito potete aggiungere tranquillamente un punto interrogativo. Molti sono i simboli sparpagliati da Trier Von nel corso del film e non tutti facilmente decifrabili. In questo ricorda il miglior Lynch, quello per me più interessante. Singolare coincidenza è anche il far recitare familiari nello stesso film, come accadde a madre e figlia Dern in cuore selvaggio, qui abbiamo la famiglia Skarsgaard, padre e figlio. Particolare del film è inoltre che molte questioni sulla trama o sul carattere dei personaggi sono affidate ad una semplice battuta, rivelatrice, che bisogna saper carpire con attenzione. Così come i tempi stessi del film, almeno la linea di demarcazione preincipale fra primo e secondo capitolo. Mi spiego. Ci rendiamo conto che il secondo capitolo è successivo al primo solo quando notiamo i libri nello studio, libri che Justine in un momento della festa aveva sostituito. Oppure capiamo che la malattia di cui soffre Justine è quella “Che ti fa sempre pensare alla cosa peggiore possibile”. O ancora, viene ripetuto due volte che c’è un campo dai golf a 18 buche, all’esterno della casa, e in una scena, sul finale, assistiamo all’inquadratura della buca numero 19. O ancora, e concludo, quando Justine, nell’atto di lasciare andare il marito, dice “Cosa ti aspettavi in fondo?”, un’affermazione che pare essere calzante a tutto il destino del genere umano rappresentato nel film, incassando il beneplacito dell’assecondante consorte. In realtà, la nostra Justine, che potremmo definire l’alter ego femminile di Trier Von, il personaggio a cui è dato il compito di parlare per il regista, (secondo me) non viene mai ostacolata, la sua malattia appare ineluttabile, e tutti i grotteschi familiari della povera eroina oltre a mostrare il loro lato peggiore non si preoccupano minimamente di alterare le cose. Particolare, o atteggiamento, tipico dei film di Trier Von, che più di una volta, per questo motivo, me li ha fatti definire “osceni”. I personaggi compiono il loro destino senza che nessuno osi mettere in dubbio o ostacolare le loro ellissi. Ma continuiamo con ordine.

Nel primo capitolo assistiamo al ricevimento di nozze organizzato dalla sorella Claire per Justine, che si presenta magnificamente scalza e con due ore di ritardo all’evento. La coppia di novelli sposi ci appare quasi normale, se non fosse per lo sguardo vacuo e sognante di un etera Dunst (sembra drogata) e per i mille sorrisi distanti che dona a profusione nella grottesca scena della limousine. Si capisce subito che il cerimoniale sarà quantomeno bizzarro, visto che Justine con estrema naturalezza fa cose che nessuno farebbe al suo ricevimento di nozze, tipo farsi un bagno prima che si tagli la torta nuziale o mettere a letto il figlio della coppia Gainsburg / Sutherland. (che, come in tutti film di Trier Von, interpreta il tipico ruolo maschile proposto dal regista danese denotando estrema debolezza, anzi, al limite dell’oscena debolezza, tanto che sono riuscito a immaginare il suo comportamento finale con largo anticipo. Ma ci arriveremo.) Trier Von riesce a donare un che di metafisico all’atmosfera della festa, facendo passare in rassegna gli spregevoli personaggi che compongono la vita di Justine e, in parte, della sorella Claire. C’è la madre, una terribile Charlotte Rampling, essere privo di affetto e rassegnato che sembra una versione di Justine 2.0 da grande, acida in ogni battuta che enuncia, che se l’odioso avesse un limite lei l’avrebbe passato di un bel pezzo. C’è il padre, interpretato dal grande John Hurt, ormai impazzito, che chiama tutte le ragazze Betty, indiscriminatamente. C’è Udo Kier, nella parte più cominca del puntigliosissimo wedding planner, che a un certp punto smette di guardare Justine coprendosi con una mano ogni volta che la vede, poiché rea di aver rovinato “il mio matrimonio”. C’è il datore di lavoro Justine, uno spregevole Stellan Skarsgard, che fa inseguire la ragazza da un suo fantomatico “nipote” appena assunto e immediatamente licenziato, nella speranza di strapparle uno slogan per la sua campagna visto che, scopriamo in uno dei tanti discorsi surreali della festa, Justine fa la pubblicitaria. Il ricevimento viene scandito da questi personaggi, e dal progressivo sprofondare di Justine che, se all’inizio appariva radiosa e sorridente, man mano ci svela la sua vera natura indolente, che Trier Von riesce benissimo a catturare con poche magnifiche sequenze (Justine che orina alla luce lunare, col vestito da sposa, in mezzo al campo da golf, Justine nella vasca da bagno, Justine, verso la fine del ricevimento seduta sopra una delle sedie che stanno accatastate al centro del salone, che ciondola i piedi e le scarpe bianche da sposa) e lentamente allontana il marito, un buffo Alexander Skarsgard (l’Eric di True Blood, per gli appassionati di serie tv, qui nella versione post rincoglionimento da incantesimo, sempre per gli appassionati della serie) che tenta, debolmente, come tutte le figure maschili di Trier Von, di salvare il suo matrimonio. Arriva persino, in una scena molto intensa del film, a regalare a Justine un terreno, che chiama “L’impero delle mele”, stigmatizzato in una fotografia che Justine dovrebbe sempre portare con sé, come riferimento per il futuro, e che lei abbandona non appena gliela consegna, dopo una furtiva scena vagamente sessuale. L’impero delle mele, immagino, deve nascondere dei significati. Rappresenta il futuro e io non posso non associare la mela a Steve Jobs, oppure, in una visione più biblica, associare la mela al peccato. Poiché “La vita umana è malefica”, fa dire Trier Von a Justine, e “Nessuno ne sentirà la mancanza”, potrebbe essere che il futuro radioso immaginato dal marito fosse comunque un impero di peccati. Non so. In ogni caso nulla arresta Justine dal suo rientro placido nelle sabbie mobili della depressione, e la prima parte si conclude con il rifiuto dei suoi genitori, seppur in maniere diverse, di occuparsi di lei. La madre la caccia dalla stanza, il padre, che la chiama Betty, se ne va improvvisamente, lasciandole un bigliettino. Justine ha un moto di ribellione (come la Kidman in Dogville) nel momento in cui manda a quel paese il suo datore di lavoro, dicendogli in faccia tutto quello che pensa di lui, ma immediatamente dopo (o appena prima, non ricordo bene) si ritrova a fare sesso col nipote, nel campo da golf, senza un vero motivo apparente. Justine sembra essere mossa da una forza invisibile che le fa sempre fare la cosa sbagliata, ma nessuno vuole o si può intromettere, perché le eroine di Trier Von hanno questa oscenità, sono martiri senza nessuna ragione apparente. Martiri ineluttabili, delicatissimi.

Qui si apre il secondo capitolo, incentrato sulla seconda sorella, quella “normale”, Claire. Il normale di Trier Von, ovviamente, è una persona in preda a mille ansie, debolissima, che vive una vita ovattata protetta dal marito ricchissimo, Kiefer Sutherland che, essendo uno scienziato, la rassicura che il pianeta Melancholia non colpirà la terrà ma la sorvolerà solamente, e tenta di impedirle di andare su internet a consultare le allarmistiche previsioni degli internauti. In questa parte, Justine viene accompagnata nella villa da un Taxi (che non riusciva a prendere, in una bellissima scena descritta telefonicamente) ed è in uno stato pietoso, diametralmente opposto al primo capitolo, dove era bellissima ma in balia di qualsiasi cosa. La malattia ha ripreso il sopravvento e Justine ci viene mostrata nella sua oscena fragilità. Dorme tutto il giorno, non riesce a camminare, non riesce a mangiare. Però, man mano che cresce l’ansia di Claire per l’arrivo di Melancholia, Justine sembra riprendere forza e essere via via sempre più serena, in uno scambio di ruoli con la sorella molto riuscito, secondo me. Ecco, una cosa che mi è davvero piaciuta di questo film è l’equilibrio che Trier Von sembra aver trovato nel dosare le sue ossessioni, nel renderle palpabili, con pochi fotogrammi, sembra come che questo sia l’insieme di molti suoi film metaforizzato, e dosato con cura. E’ come se nei precedenti film avesse compiuto delle ellissi attorno al suo pianeta depressione, descrivendocele di sbieco, mente qui riesce a farci vedere il pianeta nella sua interezza, illuminandolo con un occhio di bue. La depressione di Justine, quando tutto sta per essere perduto, diviene saggezza. Poiché Justine ci svela di “Sapere delle cose” (ad esempio indovina quanti fagioli c’erano nel barattolo del suo matrimonio, ma potrebbe aver barato) e pare essere sicura che Melancholia colpirà la terra, ma non ne fa parola, osservando la sorella disperarsi come una mosca dentro a un bicchiere. “Non penserai che ho paura di uno stupido pianeta” dice anche Justine, mezza addormentata, in un’altra frase ambigua del film, che pare essere rivolta ad altro, come se la distruzione fosse il male minore, visto quello a cui siamo sottoposti quotidianamente.

Da parte mia ho sentito un profondo senso di comunione con Justine poiché, mi si perdoni, io sono uno di quelli che pensa che l’estinzione della razza umana non sia questa grande perdita, immagino un “piagnisteo” e non “uno schianto” alla venuta di quel momento, e quel piagnisteo lo immagino, da parte mia, gaudente e pieno di gioia. Non ho fiducia nell’essere umano, mi ripugna profondamente e ho assistito al finale come un bambino al quale venga finalmente mostrato che babbo natale esiste, e sta per entrare dal camino. In questo caso il camino era il cielo, e babbo natale un pianeta enorme che via via si avvicina alla terra. “Non ci sono posti dove nascondersi ha detto papà”, confessa il bambino, il Kiefer Sutherland che pensa bene di suicidarsi pur di dover affrontare le menzogne che ha detto o la paura di veder morire la propria famiglia, una classica visione del maschio versione Trier Von, come dicevo, una via di mezzo fra un bugiardo e un vile. E a nulla valgono i penosi sforzi di Claire di portar in salvo il bambino, anche una salvezza simbolica, di portarlo al villaggio, di metterlo al sicuro in mezzo ad altre persone. Si ritrovano, le due sorelle e il bambino, ad attendere il fatale evento da sole, nella lussuosa villa. E qui Justine prende in mano la situazione, con la saggezza zen che ormai le è stata conferita dal suo onnipotente stato depressivo, (il bambino, veggente, la chiama per tutto il film la “zia indistruttibile”) e costruisce una “grotta magica”, fatta di legnetti, dove attendere la fine. C’è un senso di serenità che aleggia. Melancholia sorge tingendo tutto di azzurro, il bambino chiude gli occhi, l’inganno dell’immaginazione ancora funziona, per lui, Claire piange, è la parte normale dell’essere umano che sa di star perdendo tutto e non si rassegna, mentre Justine sorride, e si preoccupa, con un gesto toccante, di chiudere con l’ultimo bastoncino la loro grotta magica, una volta che anche Claire vi è entrata, come se credesse veramente in quello che fa, come se veramente quella grotta potesse salvarli e l’aver chiuso l’entrata li mettesse al riparo da qualsiasi cosa. E forse questo è un ennesimo messaggio che lancia il film. L’uomo è solo, malefico, ed è lanciato verso il suo ineluttabile destino, ma la forza e l’inganno della sua immaginazione lo continua a far tirare avanti giorno dopo giorno, secondo dopo secondo, anche quando non c’è più nulla da fare. E’ a quel punto che il fuoco salvifico dell’impatto fra Melancholia e il pianeta terra viene a togliere la luce dallo schermo, e io mi sento più leggero.

7 pensieri su “Fragilissimi Martiri – Una lettura di “Melancholia”

  1. beh Ale, dopo questo “editoriale” mi è venuta una voglia di guardarlo!…, il finale mi sembra splendido degno del Trier modello incipit d’Antichrist (che anch’io ho trovato un capolavoro – l’incipit – nonostante poi abbia apprezzato anche l’interessante inquietante diabolico sviluppo successivo).
    Tra l’altro paradossalmente quando scrivi <> mi sembra addirittura una virata rispetto ai finali a cui ci aveva abituati (molto simili alle ultime tele del suicida Rothko): per lo meno questa volta ci si immagina molta luce e calore nello strato indaco scuro al fondo della sua mente…

    1. Guardalo matté, merita senza dubbio. anche se, come dice bret easton ellis, trier von è una rarirà: un grandissimo regista che non è mai riuscito a fare un grande film.

  2. chiedo venia per l’intromissione… di rado frequento blog e questa volta ero solamente in cerca di qualche opinione di qualcuno più esperto di me su un film che ho visto appena uscito..
    mi spiace che il mio commento può essere preso come una critica.. al contrario spero solo di non rovinare quanto di buono è stato scritto…
    veniamo al dunque.. io mi interesso di scienza e la scelta delle “sessantamila miglia all’ora” non è così azzardata… in realtà il moto di rivoluzione della terra procede a una velocità simile, circa 6.717 10^4 miglia all’ora. (prendendo la traiettoria della terra come circolare, il raggio fisso a 1.5 10^8 m, e 365.4 giorni come periodo di rivoluzione)
    chiedo ancora scusa.

  3. Caio MP, l’azzardato era rivolto alla traiettoria diritta del pianeta, che nel film viene incontro alla terra, appunto, come una palla da biliardo.

  4. Sono arrivata al tuo blog mentre leggevo un’altra recensione su Melancholia, giri di link… Non amo post troppo lunghi ma qui gli spunti di riflessione sono talmente tanti che ne è valsa la pena 🙂

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