In Danimarca si moriva per la noia

Hai sedici anni. Al centro della stanza, vicino alle candele, ci sei tu, che sfogli pigramente una rivista. Fuori nevica senza nessun rumore. Pause si accavallano a pause e l’occhio destro scatta in un tic nervoso. Sono le quattro del pomeriggio e fuori il buio è un territorio che annette altri territori. C’è rimasto acceso solo il tuo. Fra te e lui una distanza siderale, oppure un maglietta, un maglione, 63 centimetri di stanza vuota, una finestra. Il buio avanza sul patio. Ipotizzi che fuori ci sia una forca, e che il tuo cortile sia un carcere. Puoi pensare di evadere e arrivare alla forca. Sarebbe il minore dei due mali. Quello da scegliere. L’alternativa è il carcere e il carcere equivale alla speranza. Tu non vuoi il carcere. Possono inseguirsi radicali cambiamenti, puoi decidere di lasciare le tue ossa crescere. Portarle di stanza in stanza, fra muro e muro, seguire la scuola, impegnarti nello sport. Lasciar ciondolare le gambe seduto sulla mensola del bagno di scuola ignorando tutto. Attraversare questo inverno e raggiungere un’altra estate, e poi aspettare che la clessidra si capovolga e ricominciare. La clessidra per esempio è lì. Appena finisce la prendi e la giri. Accosti l’orecchio per sentire il rumore della sabbia che cade su altra sabbia. E’ un suono che senti nella spina dorsale. Puoi farcela. Ti siedi davanti alla finestra, la clessidra da una parte. Accendi il lap top e ti metti le cuffie. Clicchi sull’icona con scritto “Musik til et selvmord”. Ascolti la tua musica, quella che hai composto tu nelle altre infinite notti invernali. Strati di suono sopra altri strati di suono. Come sabbia su sabbia. Giri la clessidra. Guardi fuori il buio e la neve. Tutto è lento e bianco e pare essere attraversato dal verbo allontanare. Le pale eoliche vorticano silenziose attraverso le lande innevate. Pensi a una frase crudele detta in una mattina qualsiasi a una persona qualsiasi. Una frase che non avresti mai dovuto dire a nessuno. Ma non ti senti in colpa. Non è la colpa il nodo. Ci pensi come hai girato nuovamente la clessidra, come le figure esagonali si accavallano sul tuo lettore musicale del lap top. I pensieri fluiscono come un movimento dissociato, come persone che si intersecano in un aeroporto per finire in centinaia di destinazioni diverse, di case diverse. E’ buio in Danimarca. E’ buio e nevica. E’ un giorno del calendario. Tu sei dentro a questo, alla nazione, al buio, al calendario. Il suono ti attraversa e ti lascia liscio e compatto. Innaturale come un sasso. Pensi a tua madre di là in cucina. Pensi a tua sorella, ai capelli biondi di tua sorella divisi da una riga perfetta e centrale. Ti manca tanto così. “Sei impaziente” è stata l’ultima frase che ti ha detto tua sorella. Adesso ti senti presente in tutte le parti della casa. Puoi percorrerla con la mente. Senti tutta la cattiveria degli angoli, senti il vento passare attraverso il buco nella serratura, puoi infilare la testa dentro ogni scarpa posta su ogni ripiano della scarpiera. Giri la clessidra. Il tempo avanza. Il buio adesso appoggia una guancia al vetro della finestra. Chiede aiuto. Ti squilla il telefono. Leggi il nome di chi ti sta chiamando. Metti in pausa la musica. Ti togli le cuffie. Rispondi, a voce molto bassa, scandendo le parole dilatandole assurdamente:

“Sì”

E poi.

“Sì, certo.”

“Sì. Va bene. Ciao.”

Appoggi il telefono in terra. Ci metti sopra la clessidra. Ti rimetti le cuffie. Spingi play. La musica ricomincia. Terza canzone del tuo album. Le note sembrano una fila si S e e una fila di U. Assomigliano a tempi morti le tue canzoni, a pause annodate una all’altra, come poesie diffuse. Adorava la sue canzoni. Se avessi potuto decodificarti, se avesst potuto comunicare o parlare o rappresentarti avresti messo su quelle canzoni. Con quelle canzoni avrebbe potuto spiegare il perché di ogni cosa, improbabile o meno che fosse. Alla domanda che tempo fa avresti potuto rispondere con la musica. Alla domanda come stai. Durante l’appello in classe invece di rispondere presente.  La canzone che passa adesso si chiama “Hastende tom”. Quella di prima “Sne”. Giri la clessidra. “Ti senti solo?” gli aveva chiesto sua madre. Non si sentiva solo. Non si sentiva nemmeno in compagnia. Non traeva mai conclusioni da niente. Ogni gesto era una porzione di un altro che lo collegava a un altro gesto. Tutto era dentro un’attesa sfinente. Conciliarsi col nulla era l’aspettativa. Attraversare questo buio. Spegni le candele. La stanza si distacca dalla casa. Comincia ad arrendersi. Adesso appartiene più all’esterno che all’interno. I suoi legami si stanno polverizzando.  Una trasformazione cruciale e lentissima. Il riflesso dei fari di una macchina illumina le varie parti della neve che cade e per un momento sai perfettamente chi sei. Sai di esserne capace. Non giri la clessidra. La tigre del buio si accovaccia, i muscoli tesi per il balzo. Respiri e sei esattamente quello che devi essere, una cavità attraversata dall’aria. Ultima canzone. Dal titolo didascalico di “Ende”.

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