Libera fra gli spilli di pioggia irrigidisce. Per un attimo si ferma, occhi chiusi, in una pausa nella pausa. Lascia la pioggia coltivarla. Pallida con i polsi solcati da vene azzurrine. I capelli biondi alghe sul suo cranio marino. L’acqua le scivola dentro alla maglietta, correndo sulla schiena, lei apre e stringe le mani, finché non è realmente percorsa da una brivido che ha la forma di un’onda radio, e sente dentro di sé una parte restare e l’altra elevarsi salendo a spirale. Percorre la spirale con gli occhi, con le endorfine, finché non la cavalca e giunge nell’altezza. Da lì riprende a camminare. Stavolta tiene gli occhi aperti, i passi si misurano identici e uguali, la sua testa è un muscolo. Nella casa ha lasciato suo fratello che dormiva con una mano fuori dal letto. Lo ha baciato sugli occhi.
Il giorno pare fratturarsi in tante parti quante sono le gocce di pioggia e lei vorrebbe contarle tutte, farne specchi. Calpesta un lembo di cartone lasciato in terra e lascia un’impronta di ballerina. C’è del fumo che sbuca da una laterale fra i palazzi color corteccia. Odore di carne di macelleria. Teste la spiano dalle grondaie, oltre le tende e i davanzali. Lei ignora e procede. Con una mano sotto alla maglietta si sfiora un capezzolo indurito. Con l’indice sente le pieghe morbide reagire al tocco. Adesso brilla. Oltrepassa cancelli, adolescenti seduti sotto alle pensiline dei bar che reggono tazze con due mani. Vorrebbe aver tempo per ognuno di loro. Poter prendere ognuno e lasciarlo nell’altezza. Ma le cose vanno fatte una alla volta.
Nella casa suo fratello apre gli occhi per un attimo e la vede appesa oltre alla finestra. Ma gli occhi gli lacrimano e lui li richiude. Per affondare di nuovo in un sogno nella gamma dei colori del giallo. La sua anima la accompagna, fa da polena. Sotto al materasso il quaderno di lei, pieno di parole fitte senza punteggiatura. Ogni pagina un titolo dal nome PIOGGIA, seguito da un numero. Ma i componimenti non parlano mai della pioggia. Sono dettati dall’altezza. Percorsi per la spirale. Una volta le ha chiesto cosa, come. Lei si è sistemata la frangetta con quattro dita. Le è venuto il singhiozzo. Adesso solleva il tombino d’acciaio e scende per la scala di metallo. La ruggine le lascia briciole sulle mani. Topi, luce grigia. La pioggia penetra nelle fessure e scende gocciolando fin nei cunicoli che percorre canticchiando una canzone di Miranda Sex Garden. L’acquedotto ha la forma di un disegno nelle pianure di Nazca. Lei attraverso i cunicoli, fra le ombre e il buio e il grigio. Solo il ciaf ciaf delle ballerine dove l’acqua s’è sollevata. E l’eco della sua voce. Fra le sue parole, dentro al quaderno, sotto al materasso adesso leccato da una pennellata di luce gialla c’è quasi sempre una donna, che cammina sotto la volta di un lungo tunnel. A volte la donna zoppica, unica costante un’aria tremendamente afflitta. Il nome del quaderno è “Quaderno delle piogge”. Suo fratello adesso si è attorcigliato alle lenzuola, sembra una mummia. Nella sua testa le immagini si spaccano, e lo spaccato si divide ancora, e quel che resta viene ancora diviso. Nei cunicoli si alternano scritte e simboli sconosciuti. Adesso la ragazza è vicino alla vasca di compensazione, dove l’uomo nella nicchia sta cucendo. Si sente il rumore della macchina da cucire attivata dal pedale. Lei vede i suoni, ci è sempre riuscita. Li vede in forme affusolate, può passarci attraverso, disperderne la consistenza rarefatta con una mano. Adesso s’impone una corrente nei cunicoli, la quale cambia lo spettro della luce, che si rifugia negli angoli in alto, perseverante e mai quieta, ondeggia, e respira. L’ombra della ragazza adesso è la sagoma di un insetto. Quella dell’uomo una forma di chaos. Lei s’accende in quel chaos.
Chiede: “Hai un regalo per me?”
L’uomo smette di cucire. Si volta lentamente e mostra cavità al posto degli occhi. Ombre al posto dei bulbi oculari. La luce della candela si muove in quelle cavità. Mostra alla ragazza il prodotto dell’Arte.
“Ho quasi finito.” Dice. Fuori il giorno è ormai polvere sotto un tappeto. Una sfera che si spezza. Si sente odore di nafta e merda e una sequenza di squittii. I topi stanno allargando la casa. La ragazza ritta in piedi come un flagello diviene il punto d’accesso dello spettatore. E’ una fessura attraverso la quale l’altezza si mostra. La testa di suo fratello adesso è buttata all’indietro, gli occhi al soffitto. Ma i suoi capelli non seguono la gravità e si innalzano anch’essi verso il soffitto. L’uomo riporta le cavità sull’Arte, l’Arte al suo posto.
Riprende a cucire.
Il bianco sopra la ragazza adesso non esiste, non si stende e non sorride. Lei lo assorbe.
beh, da nano non m’intendo troppo d’altezza, ma mio cugino mi diveva sempre: “per volare in alto mi libro”. e mentre pronunciava scritte le parole, il bianco sopra di lui non era più una pagina vuota e l’ombra al posto dei bulbi oculari colava diventando inchiostro. anche questa è una forma di culto, quasi come alzare un tombino, scendere una scala e rintanarsi in una pausa nella pausa.
un bel racconto invaginato, indubbiamente evocativo, pieno di simboli sconosciuti, di parole che piovono fitte fitte e di trame da ricucire. anche se tanto vince sempre l’entropia.
: )
(occhio, refuso: “tappeto” vs “tappetto”, credo. a meno che non ti riferissi a me)
: )))
In realtà è una bastardata, questo racconto, nel senso che è la terza parte di una trilogia di note che fanno da sottotrama al romanzo, mancando le prime due si fa fatica, lo capisco, ma credo tenga anche come cosa autonoma, assume una nuova identità.
p.s.
correggo il refuso 😉