Come dicevi? Conficcato. Oppure intriso. Ma non sono sinonimi. Tuttavia ho solo questo da usare. Il linguaggio. Ecco il gioco: posso usare solo questo e se lo uso ho perso. Mi trasformo. Trasformo quello che ho intorno. Quello che diceva che tutto ciò che esiste è linguaggio, lo puoi dire. In realtà tutto ciò che dici smette di esistere per essere trasfigurato. Come le fotografie. La bidimensionalità della morte. Così il linguaggio si adopera attraverso l’uomo, che non può fare a meno di usarlo. È come stare su un ponte sospeso nel vuoto dove per camminare devi creare ogni centimetro del ponte. Lo crei con le parole. E vai avanti. Il procedere viene chiamato tempo. Ti muovi fra quello, dicono, e questo. Questo? Questo non si sa cosa sia. La realtà potrebbe essere che non ti muovi. Non chiedere. Se non chiedi non avrai risposte. Devi cercare una risposta, dicono. Devi cercare risposte. Io dico non cercare neanche le domande. Ma mentre lo dico sono in posa. Mi scattano una fotografia. Per esempio adesso in questa città. In questo vicolo. Sotto questa insegna al neon. Ecco ragazze con pettinature simili a letterature. Ragazzi oppressi, depressi, ma vestiti bene, in accordo con qualche forma di autoipnosi. Uno si avvicina e ti dice scusa se ti disturbo ti volevo dire che. Guarda hai appena evidenziato che. Non sospettiamo niente. Ondeggiamo i calici, all’aperto, che vengono trafitti dalle luci dei lampioni sparando raggi in mille direzioni. Ripetizione e distruzione. Non c’è altro. E più ti avvicini, magari commiserandoti, a un momento di purissima verità che qualcuno ti bussa su una spalla e ti fa vedere il suo nuovo cellulare. A volte non serve neanche che qualcuno ti distragga. Stai già guardando il tuo. Alcuni li trovo impegnati mentre si fissano le mani da vicinissimo e se gli chiedi qualcosa ti rivelano che hanno appena scoperto che se guardi le tue mani da vicinissimo ti accorgi che la pelle non è liscia ma solcata da centinaia di migliaia di righine sottilissime che si intersecano. Ti dice qualcosa questo? Chiedo. E ho perso.
Eccone due che si stanno di fianco come crepacci, paralleli e durissimi, senza sfiorarsi mai. Ma il fatto che siano due, e siano vicini, crea già qualcosa, un dialogo immaginario, un contesto, una sfida. Ragazzi con acconciature vegetali ora. Quasi marine. Il profumo chimico e accecante di una signora bionda sui tacchi lascia un solco. È la sua anima. Non sto descrivendo altro che una serata qualunque in una città qualunque. Siamo usciti perché dovevamo. Che altro potevamo fare? Ci siamo vestiti perché dovevamo. Ci parliamo perché dobbiamo. Perché siamo qui. Due ragazzi parlano di calcio. Di che squadra sei? Chiede uno. Appartenere a qualcosa di irreale e incorporeo e farlo diventare un’emozione. Come hai scelto la tua squadra del cuore? Perché non la cambi? Ti sei affezionato a un sasso. Perché non ti affezioni a un sasso e cominci a seguirne le vicende emozionandoti terribilmente? È la stessa cosa. Fa ridere vero? Sto scherzando. Parliamo di cosa fare dopo. Porteremo i nostri corpi di là. No, li porteremo di qua. Discutiamo a lungo di questo, affermiamoci come identità in base a quale locale preferiamo essere fra venti minuti. Vedi che scherzi fa il linguaggio? Dovevo dire in che locale preferiamo apparire fra venti minuti. Voglio essere stagliato sotto un bastione gotico o immortalato dentro un club? Con le braccia alzate magari. Incontrare persone e salutarle, più persone conosci e più sei rassicurato. Ogni persona che incontri e saluti ti assesta in una parte dello schema, allenta la pressione interna che tieni nascosta sotto trame di decisioni infinitesimali, dalle scarpe che hai messo a che tipo muscolo facciale decidi di muovere in risposta a una certa domanda. Come mettere i piedi mentre bevi un cocktail. Dove tenere le mani. Sono cose importantissime se gli dai un certo peso. Importantissime per arrivare a cosa verrebbe da chiedere ma le domande non le farò più. Ho scoperto il segreto del linguaggio. Non dirò mai più “sono stato in vacanza in Giappone.” Dirò “dico di essere stato in vacanza in Giappone”. Perché lo sto dicendo. Così facendo mi atterrò quanto più possibile alla verità e forse mi terrò sul perimetro del gioco. Ma tenere in considerazione il gioco è già giocare e se giochi hai perso. Fingere di diventare muto? Potrebbe essere una posa entusiasmante.
Intanto adesso leggo parole come sony, yamamay, kebab, metro. È il braille impresso sulla corteccia cerebrale, segnaletica universale per non vedenti, da toccare con le dita della mente. Anche le immagini svolgono lo stesso ruolo ma in un contesto maggiormente primordiale. In natura non esistono le parole, esistono solo le immagini, gli animali pensano per immagini, come noi. Noi tiriamo fuori le immagini attraverso i vocaboli, per credere di metterci in salvo, mentre mistifichiamo. La parola somatizzare non ha mai salvato nessuno. La parola disvelamento non ha tenuto al caldo nessun homo sapiens sapiens. La parola “parola”, nascosta in mezzo al vocabolario, mi terrorizza. Cosa mi sta succedendo? Non ho colpa di niente di tutto ciò. Ci sono stato conficcato. Non ho nessuna colpa. Sono immerso nell’aria, nell’ambiente. Ne sono intriso. Per respirare devi mistificare, usare il linguaggio. Per tenere tutto lontano, per tenere lontano chiunque. Mentre parli allontani. Adesso saliamo in macchina. È plausibile che io possa essere certo solo di quello che è nel mio campo visivo? No, è rischiosissimo. È plausibile che io possa essere certo solo del mio corpo. Ad esempio il mio corpo su questo sedile adesso è una S stilizzata, come quelle naziste, un pezzo di tetris caduto dall’alto e incastrato perfettamente su questo sedile ergonomico costruito da minuscole macchine giapponesi. Qualcuno mi chiede sei mai stato in Giappone? Dico di essere stato in Giappone, sì. Ma allora non ci sei stato? Dico di esserci stato. Ci sei stato o no? Lo dico, non posso provarlo. Ma come, e tutte quelle fotografie di cui mi parlavi? Ripetizione e distruzione, dicevo. Non c’è altro. Pettinature come antiche religioni. Vetture con fattezze animali. Cibi che risolvono vasti problemi di trigonometria. Virgole. Punti. Lettere dell’alfabeto che se poste in un certo ordine formano orsi, nazioni, conigli. Oppure faccine. Prende territorio un regno di silenzio nell’abitacolo. Strutture mentali complessissime si riepilogano e cercano di far quadrare equazioni interne sconosciute nella forma e nel senso. Ci muoviamo in un labirinto buio, accendendo cerini nell’oscurità. I cerini sono le parole. Solo la ripetizione ci fa sentire meglio. Infatti quello vicino a me mi guarda. Abbiamo lo stesso taglio di capelli. Stai benissimo mi dice. Io continuo a guardare fuori.