Poeta come una specie di stampella o surrogato dell’organo genitale

Così ci ritroviamo questo poeta già vecchio, poco più che trentenne o quarantenne, simile a un buco il cui perimetro è evidenziato dagli occhi dei poeti che ha intorno.

La sua ragion d’essere, svanita nel rumore totale dell’overdose d’informazioni, immagini, linguaggi, notizie, reportage, e dalla mescolanza di tutti questi dati lo costringe, alla stregua dei pipistrelli, a emettere una serie impressionanti di onde sonore per delimitare quello che gli viene incontro, quello che ha intorno, dove si trova.

Dall’emissione costante di questo ronzio, attraverso la sua latenza, esso fa sapere agli altri della sua esistenza, tutta immaginata, e si rende conto di sé, ponendosi come un animale mutevole la cui unica afflizione è quella di esistere, in primis, e credere che il suo nome, e dunque il suo io, come una trasmissione radio mandata nello spazio, possa persistere al tempo della sua parentesi terrena. Per fare ciò, esso si adopera mille azioni e funzioni che lasciano i suoi versi, per l’appunto, come un vuoto centrale da cui si irradia la sua immagine.

Esso comprenderà che per delimitare il suo perimetro è necessario che il suo nome permanga nell’etere il più a lungo possibile, ratificato dalla sua ripetizione in più non luoghi possibile visto che, la materia che tratta, di per sé è come un prefisso che annulla o amplifica o distorce qualsiasi cosa, anche il nulla stesso ma che, pare, non abbia ragione d’essere per la sola ragione d’essere. Il poeta viene così a sapere della sua esistenza, ma non sa chi è.

In sostanza, potremmo dire che se oggi nessuno sa che questo poeta è un poeta, esso non è un poeta.

In soccorso accorre falsamente anche l’etimologia della parola che contrappone il fare all’essere. Così, in un corpo realmente scomparso, si trova ad esistere come esiste uno slogan pubblicitario, ma con l’ansia da prestazione. Ecco dunque la sua azione divenire performativa, altamente performativa, sia in termini reali, ossia di esecuzione dei suoi versi in ogni forma immaginabile, sempre associati a qualcosa, che immaginari, ossia nel perpetrare una sfinente esibizione di un sé indulgente e aperto agli altri, che cela la sua vera natura di buco nero egocentrico.

Nel 2013, per esempio, ecco il poeta associare i suoi versi a fotografie sfocate, ritraenti scenari desolati, alberi sfuggenti, o periferie di città. Ecco la voce del poeta accompagnare video di deriva urbana pieni di luci che si confondono o piani sequenza rallentati di vedute di marciapiedi dalla posizione che può essere quella di un uomo seduto sull’autobus, o su un treno, intento a guardare fuori. Ecco il poeta appiccicare qualche parola sotto a un’installazione di arte contemporanea, decidete voi, uno scatolone dal quale fuoriescono solo le gambe di una donna. Ma esso è dinamico.

La sua voce si associa bene all’ipnotico peripatetico andirivieni di persone in un centro commerciale, al tintinnare di forchette e denti sui bicchieri all’interno di un ristorante; eccolo disturbare aperitivi in centro, all’aperto o indoor, partecipare chiaramente a qualsiasi manifestazione che associ il prefisso poesia agli interessi di un qualche assessore al turismo o a un salumificio o, in forma scaltrissima, organizzarne lui stesso. Con il cibo e le bevande la poesia va a nozze, ma anche con la morte.

Ambizione massima di questo poeta infatti è che suoi versi vengano recitati durante il funerale di chicchessia, rimanendo il cerimoniale funereo interdetto alla smania pubblicitaria del poeta, per questioni, incredibile a dirsi, di pudore. Lì può essere presente solo se recitato da un altro, sopraffatto dal dolore. Ecco ancora questo poeta recitare i suoi versi e registrarli con accompagnamento musicale, dal canto degli uccelli alla musica classica al rock fino alla musica elettronica e al noise. I più arguti provano a recitare versi sopra i 180/240 battiti di una discoteca.

Il suo irradiamento però non può arrestarsi al suo semplice corpo, oramai svanito, percepito solo come onda di ritorno di feedback, così questo poeta, la cui parabola si potrebbe circoscrivere in materia comportamentale a quella delle radici dell’erba gatta, si allunga in filamenti sottilissimi e si perde in rivoli che nascosti dal rumore lo fanno porre nella posizione di quello che si dona agli altri mentre lui, istintivamente, sta solo cercando nutrimento per il proprio avatar, per la propria sete implacabile.

Si potrà vederlo dunque lasciare poesie sugli autobus, attaccarle ai muri, scriverle a lettere cubitali sugli edifici delle città. Nessuno può dirgli nulla, lui sta portando la cultura, il suo comportamento è generoso e magnanimo, ma guai a dirgli che sta urlando in un megafono nel deserto, o sta semplicemente aggiungendo una linea di basso indistinguibile nell’orgia sonora di una composizione di noise giapponese tardi anni 80. O che nessuno vuole leggere le sue poesie. Questo dato, dal momento che si disconosce il fine del poeta nell’atto semplice di scrivere, non viene neanche preso in considerazione. Se lancio una sasso in uno stagno non mi si può dire che lo stagno non volesse ricevere il sasso, ma solo ammirarne i cerchi che si dispiegano.

Tuttavia, allungato come un’amaca inverosimile fra il momento della sua nascita e quello della sua morte il nostro prova a gettare gli ultimi artigli al di là della sua sfera personale, sostenendo anziani poeti che spegnendosi potrebbero citarlo nella loro eredità, o spendendosi, all’età di quarant’anni, nella ricerca e antologizzazione di poeti che hanno qualche anno meno di lui. La sua generosità verso le generazioni più giovani è un seme che potrebbe rivelarsi assai duraturo. Eccolo dunque spronarli nella creazione di nuove forme e interazioni in cui la poesia possa esistere, fermo restando che lui è stato il primo a posare una mano benevola sui loro capi da eliotropi.

Questo poeta ormai vecchissimo a quarant’anni, che si guarda indietro con nostalgia, continua dunque a dispensare consigli, indicando ora la via dell’avanguardia e ora quella del sociale, che la poesia, il suo vuoto glielo ha confermato, è null’altro che comunicazione e interazione. Questo poeta adesso è proprio qui, magari è lo scrivente di queste stesse parole, poiché il teatro sul quale va in scena la sua personale cosmogonia è tetramente postmoderno, e dunque ironico, auto indulgente, felicissimo di indicare le sbarre della propria gabbia perché la sbarre, per un vuoto fatto di parole attorno, sono un confine desiderabilissimo, quasi una necessità erotica.

Per questo ha sempre bisogno di qualcosa a cui accompagnarsi, per questo, ancora oggi, quando legge il proprio nome, il suo vuoto ha un’erezione.

hakone

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2 pensieri su “Poeta come una specie di stampella o surrogato dell’organo genitale

  1. D’ accordo su tutto. Il poeta non lo sa.. Le poesie gli nascono in mente come fiori, a volte come figli. Ma non va a raccoglierli, e il lettore intuisce appena il significato.
    Solo una cosa.. Se fosse il narratore cadrebbe tutto

  2. Lucidissimo e desolante… esiste un meccanismo strano per cui oggi, grazie a internet, ai blog ecc., queli che scrivono poesie sembrano tantissimi, a confronto dei pochi che le leggono, o almeno che le leggono con cognizione di causa. E, al rovesco, il “poeta” d’oggi spesso scrive troppo e legge poco, legge poco i poeti poeti, quelli un po’ classici, non solo i suoi amici su FB o comunque altri sodali poeti telematici. Ci penso spesso a questa cosa, perché anche provo a scrivere, ma temo di cadere nel vuoto che l’autore del post qui denuncia.
    Il “mi piace” veloce che viene posto sotto versi pubblicati, o il commento sterile che si risolve in un’emoticon algida è la negazione della sostanza della poesia, la quale ha bsogno di tempi lunghi per essere commentata e digerita.

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