Un uomo continua a vendere un auto e a ricomprarla. È innamorato della sua auto. Ogni volta che la riprende lei è sempre messa peggio, richiede continuamente maggiori attenzioni ricambiando sempre meno. Lui continua nel suo elastico perché la parola amore è la parola più importante che ci sia. Nella scala dei valori la parola amore è confusa con la parola dio, un qualcosa di invisibile che ci accomuna. Una ragazza di Baton Rouge ha una conversazione telefonica di due minuti con un morto. Il morto è un bambino polacco e l’ostacolo della lingua fa si che questo estremo messaggero veda il suo reclamo respinto. Uno dei tanti vicoli ciechi dell’evoluzione. Queste cose me la racconta Bruno, mentre è stravaccato su un divano a torso nudo, con una bottiglia di vodka in mano. A Parigi dice che non si esce prima di aver finito le bottiglie di vodka che Bruno ha nel frigo. La sua ragazza giapponese lo fissa con un colbacco in testa. Una donna italiana compra una penna a Parigi e comincia a scrivere storie che si pongono al confine fra la pornografia e la letteratura; il succedersi degli eventi porta la donna in prigione dove le viene affidata la gestione della biblioteca del carcere. Se Parigi senta la mancanza della sua penna non è interpretabile attraverso la lettura delle condizioni atmosferiche, nonostante una violentissima grandinata estiva si sia abbattuta sulla piramide del Louvre facendo preoccupare tutti i presenti, proprio il giorno dell’anniversario del venticinquesimo anno in cui la donna è entrata in possesso della penna.
Questo me lo dice ancora Bruno mentre siamo in piedi fuori al Divan du Monde, a Pigalle, dove non riusciremo a entrare, proprio a due passi da casa sua. Ma a Parigi la destinazione è importante solo per far accadere delle cose nel mezzo, in un modo o nell’altro si finisce davanti a saracinesche abbassate, in uno strisciare che issandosi con gli spiriti a cercare di toccare l’orlo della grazia cerca la sua assoluzione verso aspettative altre, più nobili, in attesa di mani profetiche che dal buio ti condurranno in appartamenti piccolissimi o enormi, mischiandosi le reciproche esistenze come strette di mano nel momento di scambiarsi un segno di pace in chiesa.
Qui qualche anno fa venivano scritti i tropici del cancro, e ancora adesso sulla riva sinistra della Senna avevano appena vomitato sul parapetto, nel punto esatto dove la polacca mi stava chiedendo se avevo voglia di fare una passeggiata. Sentivo un odore strano ma non immaginavo che lei ci fosse finita sopra mentre discorrevamo del volontariato in Polonia, sopra quella crocifissione rosea di spaghettini sottili sottili – così andiamo a sciacquare il suo polso nella Senna, mettendoci i capelli dietro alle orecchie come apostoli urbani, mentre gli altri se ne stanno accucciati sulle panchine, a fissare le chiatte e i ponti e i topi, a costruire, coi loro corpi e i bicchieri di plastica e le bottiglie abbandonate a lato una poesia per gli occhi di qualche poeta in attesa. Bruno è lì vicino che fuma una sigaretta, la camicia aperta, i peli del petto che gli formano una V. “Sei un artista?”, gli chiedo. Tutti sono artisti a Parigi. Tutti sono artisti da qualsiasi parte del mondo. Poeti, fotografi, musicisti, scultori, cineasti, scrittori, modelle. Anche i filosofi sono artisti. “No.” Mi risponde Bruno, lasciandomi di sasso. “Non pratichi nessuna arte?”, gli chiedo in inglese. “No.” Mi risponde. “Tu sei un artista?” mi chiede. “Non credo.” Rispondo onestamente. “Io scrivo.” Dico onestamente perché di scrittura non si vive, quindi non sono un artista. Lo spiego a Bruno che alza un sopracciglio. “Hai visto Bruno?” dico a Vian più tardi. “Fa arte non facendo niente.”
Finiamo in casa di una signora benestante, dopo aver preso svariate metro. Il vino è del Sudafrica – un rosé da 13 gradi, la padrona di casa nel 1957 attraversava su un pullman della greyhound tutta l’America da Philadelfia a Città del Messico, era alle dipendenza di una pittrice, dice, Ines si chiama, due figlie in due nazioni diverse, Ines che nel 70 era a New York, qualche anno dopo quattro stagioni in Iraq senza mai uscire di casa – in Giappone a indossare vestaglie di seta e infine a Madrid, Ines, mentre io sono capace solo di cambiare la tonalità del colore del vino. Ha la faccia rugosa ma una bellezza ancestrale, appesa sopra alla testa. Penso a Gesù che alla mia età aveva già allestito il suo spettacolo, mentre io scatto fotografie di nascosto con una macchina usa e getta a ragazze magrissime con le bocche rosse come le luci delle ambulanze con la paura di farmi scoprire. Ce ne andiamo nella notte, entra una ragazza sul vagone della metro, si abbassa le calze e le mutande e si accovaccia. Guardo la scìa della sua urina sballottata dai vagoni e la fotografo col flash. Penso che quando Carmelo Bene parlava di diventare un capolavoro forse pensava a Bruno. Non si può fare musica con la musica, poesia con la poesia, teatro col teatro, pittura dipingendo. Non si può vivere la vita vivendo. Queste cose le capisco. Bruno mi impressiona moltissimo. Casa sua sembra una galleria d’arte, lui sembra un artista, lavora in una libreria annessa ad una galleria d’arte. Quindi non ha bisogno di fare l’artista. La sua arte è lui stesso. Ma così si è costretti a vivere, a uscire molto. Io per non vivere scrivo. La scrittura è una fuga dalla vita. E’ scavare un bunker e sopravvivere da soli, come dopo un evento nucleare.
Soprattutto a Parigi dove non succede mai niente.