Ballerine gambe di cacciavite affondano nella terra durante le loro piroette e restano inchiodate – spirito rasato – sedute a tavola con le posate verticali dietro teste divise da righe che le attraversano.
La dattilografia, quest’arabo aziendale, non ci avrebbe salvato e seguire una pista o un’altra non avrebbe chiarito come ci saremmo dovuti comportare di fronte a questa moltitudine di cavità.
Un uomo sistema le unghie di un defunto nel silenzio di una camera mortuaria.
Quando finisce spegne la luce aggiungendo buio al buio degli occhi del morto.
Questa addizione pareva una formula che poteva condurre, con una strana spirale, alla sagoma di dio.
Oceani, pieghette, scritte in sovraimpressione, i numeri dei cellulari non conducevano a nessuna persona in particolare, una linea adsl con cui interpretare preghiere e ancora nessuno, neanche le nostre mani: la visione di uno scarabeo capovolto che sforbiciava le zampette per l’aria poteva riassumerci per due millenni.
Mediocri sicurezze si sommavano a dettagli di abbigliamento, sogno e televisione stavano sopra e sotto la realtà dove un tempo, soprattutto da giovani, si potevano sentire i corpi, mentre oggi tutto era solo un movimento di gambe con gli stivali, con i volti chinati sugli schermi, un formicaio illuminato di neon coperto da risatine idiote, dove le teste formavano nuove scienze, le personalità erano cartelle disordinate, piene di file introvabili, e la linea andava e veniva, andava e veniva a singhiozzo mettendo a dura prova la nostra fede nella pazienza.
La voce di persone anziane che usano parole desuete, la falsa accondiscendenza dei bancari durante le pubblicità, le improvvise pause di silenzio in stanze affollate ci conducevano in zone remote della nostra presenza, regni sottilissimi in cui eravamo vetro e la persona riflessa nel vetro coccolati da superstizioni in cui dicevamo di non credere, le fronti sporche di cenere; la consolazione che nessuna paura poteva essere più tremenda di questa, nessuna plastica più simile alla nostra pelle.